L'Abi: "La nostra è una gestione sana e prudente"
Padroni e padroncini senza capitali. E ora anche con il rubinetto del credito chiuso dalle banche. Perché le imprese italiane sono diventate clienti ad alto rischio: troppo piccole, troppo indebitate (più di quelle spagnole e francesi) e, nei casi migliori, troppo dipendenti da una domanda mondiale ancora in caduta. È così che il credit crunch è arrivato pure da noi, con il timbro della Banca d'Italia: a maggio con il meno 0,9 per cento in un anno dei prestiti erogati dalle banche.
Un dato impressionante se si pensa che nell'arco dell'ultimo decennio l'aumento del credito era stato in media del 9,6 per cento. Vuol dire che il collegamento tra le banche e un pezzo del sistema produttivo si è inceppato. Non è solo una selezione darwiniana, per cui i peggiori restano sul campo: l'interruzione del credito interessa anche chi aveva investito in innovazione, guardando al mercato globale, e ora è a corto di liquidità, così come di garanzie per colpa della recessione. Ma le banche non cedono: "Siamo aziende come le altre, non possiamo non chiedere le garanzie". "È una forma di tutela imposta dalla sana e prudente gestione", ha detto di recente il presidente dell'Abi, Corrado Faissola, assicurando che oltre il 50% del flusso di crediti va alle piccole imprese.
Senza soldi molte aziende moriranno, a settembre non riapriranno i cancelli, licenzieranno. Lo ha detto Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, non la Cgil. "I finanziamenti ci servono per non scomparire, non per i nuovi investimenti", spiega Roberto Zuccato, presidente della Confindustria di Vicenza, 2.400 associati, seconda solo all'Assolombarda, area di capitalismo molecolare, di terzismo di alta qualità, di fatturati che stanno crollando a picco e ordini che non arrivano. Area di scontro durissimo tra le grandi banche e le piccole imprese. "Dicono che c'è la liquidità? Fandonie!". Lì, nel nord-est, continua a funzionare ancora la banca territoriale: le popolari e quella del credito cooperativo. "Perché - domanda Zuccato - loro ci fanno ancora credito?". Ma non basta e, soprattutto, non è dovunque così.
L'allarme è stato lanciato, e la tensione è altissima. Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha parlato di una "moratoria" per i debiti delle imprese. Termine non a caso bellico, perché questa - appunto - è anche una guerra per la sopravvivenza. Nei prossimi mesi migliaia di imprenditori con i loro lavoratori si giocheranno il futuro. Che dipende per una buona percentuale anche dai direttori delle filiali delle banche. Sono loro che stanno ridisegnando i contorni del capitalismo italiano. Senza averne, spesso, le competenze più idonee ed essendo, non raramente, estranei al tessuto produttivo locale. Sostiene Sandro Trento, professore di economica all'Università di Trento, già al Servizio studi di Bankitalia e poi chief economist della Confindustria: "Le banche italiane sono troppo prudenti. Sulla valutazione del credito hanno un approccio pigro e conservatore. Quando devono concedere un prestito fanno i notai: chiedono le garanzie reali. Ma quanti nelle banche italiane sono capaci di valutare un progetto industriale? Ci sono gli ingegneri nella banche italiane?".
La verità è che le grandi banche, colpite dai subprime, senza più forti radicamenti territoriali, e ancora impegnate in complicati processi di aggregazione, hanno stretto i rubinetti. Basta leggere l'ultima relazione annuale della Banca d'Italia: "Le politiche di erogazione dei prestiti sono divenute più selettive soprattutto nei principali gruppi bancari per i quali la decelerazione del credito è cominciata già nel 2007 ed è stata più intensa rispetto alle altre categorie di intermediari".
Sono stati compressi i più piccoli. "Ed è difficile sostenere che con gli effetti della crisi la loro rischiosità non sia aumentata", osserva Marcello Messori, che, professore a Tor Vergata e presidente di Assogestioni, ha dedicato molta parte dei suoi studi al rapporto tra banche e imprese. Ancora l'ultima relazione della Banca d'Italia: "In tutti i comparti di attività economica i prestiti crescono meno per le aziende piccole rispetto a quelle di media e grande dimensione". E questa è anche la miscela che potrebbe diventare esplosiva: da una parte le rigidità delle banche, preoccupate per l'incremento dei crediti in sofferenza nei propri bilanci (+ 10 per cento a maggio rispetto all'anno scorso); dall'altra la fragilità delle nostre piccole, piccolissime imprese (oltre il 95 per cento del totale ha meno di dieci dipendenti). Affette da "nanismo cronico" la cui patologia, prima della Grande Crisi, è stata così sintetizzata da Fabrizio Onida nel suo "Se il piccolo non cresce": "Una bassa propensione alla ricerca per l'innovazione industriale, una declinante capacità di attrarre investimenti produttivi dall'estero, una bassa capitalizzazione di borsa, una eccessiva dipendenza delle imprese dal credito bancario a breve termine".
Ecco, i piccoli imprenditori, storicamente restii ad aprirsi a nuovi capitali e nuovi soci, stanno facendo fino in fondo i conti per aver accettato l'"esclusiva" con le banche. Hanno vissuto di bancocentrismo, rischiano di esserne schiacciati. Non sembra che abbiano alternative ( i Tremonti bond sono serviti a poco) se non un neo-dirigismo statalista che suonerebbe più o meno così : "Bisogna fare credito alle imprese. Punto". "No, nessuno pretende questo - ragiona Carlo Sangalli, presidente della Confcommercio - ma serve una "corsia di emergenza" per le piccole imprese. Tradotto: meno "Basilea 2", cioè meno valutazioni basate essenzialmente sul patrimonio, e più banca di prossimità. Insomma, vogliamo che le piccole imprese siano trattate almeno come le grandi". Piccole e grandi in conflitto, anche davanti allo sportello bancario. Ma le grandi, private o controllate dal pubblico, hanno in mano almeno un'alternativa: emettere obbligazioni, i corporate bond, per raccogliere risorse direttamente sul mercato, per finanziarsi senza le banche. "Un affarone per tutti", come ha detto Sergio Marchionne ad della Fiat, pensando ai tassi di questa stagione. "Ma anche un altro tassello per aumentare le differenze tra piccole e grandi imprese, con un effetto spiazzamento per il risparmio gestito", aggiunge e ammette Messori in qualità di presidente di Assogestioni. I bond dell'Eni sono andati a ruba. Un'emissione potrebbe essere allo studio di Enel, Telecom e Autostrade. I piccoli possono solo andare allo sportello. E forse è troppo poco per resistere.
Un dato impressionante se si pensa che nell'arco dell'ultimo decennio l'aumento del credito era stato in media del 9,6 per cento. Vuol dire che il collegamento tra le banche e un pezzo del sistema produttivo si è inceppato. Non è solo una selezione darwiniana, per cui i peggiori restano sul campo: l'interruzione del credito interessa anche chi aveva investito in innovazione, guardando al mercato globale, e ora è a corto di liquidità, così come di garanzie per colpa della recessione. Ma le banche non cedono: "Siamo aziende come le altre, non possiamo non chiedere le garanzie". "È una forma di tutela imposta dalla sana e prudente gestione", ha detto di recente il presidente dell'Abi, Corrado Faissola, assicurando che oltre il 50% del flusso di crediti va alle piccole imprese.
Senza soldi molte aziende moriranno, a settembre non riapriranno i cancelli, licenzieranno. Lo ha detto Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, non la Cgil. "I finanziamenti ci servono per non scomparire, non per i nuovi investimenti", spiega Roberto Zuccato, presidente della Confindustria di Vicenza, 2.400 associati, seconda solo all'Assolombarda, area di capitalismo molecolare, di terzismo di alta qualità, di fatturati che stanno crollando a picco e ordini che non arrivano. Area di scontro durissimo tra le grandi banche e le piccole imprese. "Dicono che c'è la liquidità? Fandonie!". Lì, nel nord-est, continua a funzionare ancora la banca territoriale: le popolari e quella del credito cooperativo. "Perché - domanda Zuccato - loro ci fanno ancora credito?". Ma non basta e, soprattutto, non è dovunque così.
L'allarme è stato lanciato, e la tensione è altissima. Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha parlato di una "moratoria" per i debiti delle imprese. Termine non a caso bellico, perché questa - appunto - è anche una guerra per la sopravvivenza. Nei prossimi mesi migliaia di imprenditori con i loro lavoratori si giocheranno il futuro. Che dipende per una buona percentuale anche dai direttori delle filiali delle banche. Sono loro che stanno ridisegnando i contorni del capitalismo italiano. Senza averne, spesso, le competenze più idonee ed essendo, non raramente, estranei al tessuto produttivo locale. Sostiene Sandro Trento, professore di economica all'Università di Trento, già al Servizio studi di Bankitalia e poi chief economist della Confindustria: "Le banche italiane sono troppo prudenti. Sulla valutazione del credito hanno un approccio pigro e conservatore. Quando devono concedere un prestito fanno i notai: chiedono le garanzie reali. Ma quanti nelle banche italiane sono capaci di valutare un progetto industriale? Ci sono gli ingegneri nella banche italiane?".
La verità è che le grandi banche, colpite dai subprime, senza più forti radicamenti territoriali, e ancora impegnate in complicati processi di aggregazione, hanno stretto i rubinetti. Basta leggere l'ultima relazione annuale della Banca d'Italia: "Le politiche di erogazione dei prestiti sono divenute più selettive soprattutto nei principali gruppi bancari per i quali la decelerazione del credito è cominciata già nel 2007 ed è stata più intensa rispetto alle altre categorie di intermediari".
Sono stati compressi i più piccoli. "Ed è difficile sostenere che con gli effetti della crisi la loro rischiosità non sia aumentata", osserva Marcello Messori, che, professore a Tor Vergata e presidente di Assogestioni, ha dedicato molta parte dei suoi studi al rapporto tra banche e imprese. Ancora l'ultima relazione della Banca d'Italia: "In tutti i comparti di attività economica i prestiti crescono meno per le aziende piccole rispetto a quelle di media e grande dimensione". E questa è anche la miscela che potrebbe diventare esplosiva: da una parte le rigidità delle banche, preoccupate per l'incremento dei crediti in sofferenza nei propri bilanci (+ 10 per cento a maggio rispetto all'anno scorso); dall'altra la fragilità delle nostre piccole, piccolissime imprese (oltre il 95 per cento del totale ha meno di dieci dipendenti). Affette da "nanismo cronico" la cui patologia, prima della Grande Crisi, è stata così sintetizzata da Fabrizio Onida nel suo "Se il piccolo non cresce": "Una bassa propensione alla ricerca per l'innovazione industriale, una declinante capacità di attrarre investimenti produttivi dall'estero, una bassa capitalizzazione di borsa, una eccessiva dipendenza delle imprese dal credito bancario a breve termine".
Ecco, i piccoli imprenditori, storicamente restii ad aprirsi a nuovi capitali e nuovi soci, stanno facendo fino in fondo i conti per aver accettato l'"esclusiva" con le banche. Hanno vissuto di bancocentrismo, rischiano di esserne schiacciati. Non sembra che abbiano alternative ( i Tremonti bond sono serviti a poco) se non un neo-dirigismo statalista che suonerebbe più o meno così : "Bisogna fare credito alle imprese. Punto". "No, nessuno pretende questo - ragiona Carlo Sangalli, presidente della Confcommercio - ma serve una "corsia di emergenza" per le piccole imprese. Tradotto: meno "Basilea 2", cioè meno valutazioni basate essenzialmente sul patrimonio, e più banca di prossimità. Insomma, vogliamo che le piccole imprese siano trattate almeno come le grandi". Piccole e grandi in conflitto, anche davanti allo sportello bancario. Ma le grandi, private o controllate dal pubblico, hanno in mano almeno un'alternativa: emettere obbligazioni, i corporate bond, per raccogliere risorse direttamente sul mercato, per finanziarsi senza le banche. "Un affarone per tutti", come ha detto Sergio Marchionne ad della Fiat, pensando ai tassi di questa stagione. "Ma anche un altro tassello per aumentare le differenze tra piccole e grandi imprese, con un effetto spiazzamento per il risparmio gestito", aggiunge e ammette Messori in qualità di presidente di Assogestioni. I bond dell'Eni sono andati a ruba. Un'emissione potrebbe essere allo studio di Enel, Telecom e Autostrade. I piccoli possono solo andare allo sportello. E forse è troppo poco per resistere.
Fonte: Repubblica.it
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